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Articolo ripreso da ilTirreno

Se lo sport fa rima con integrazione
Giovanissime, diventano arbitro di calcio: una è marocchina, l’altra turca.
PONTEDERA. Hanno sfidato tutti i luoghi comuni possibili.
Hanno seguito la loro passione e la giacchetta nera è diventata realtà.
Da una parte Jihane, diciannovenne, residente a Pontedera ma originaria di Casablanca in Marocco.
Dall’altra Akarmut, 17 anni, cresciuta in Turchia ma cittadina pontederese dal 2004.
Unite sotto il segno dello sport.
Di uno sport che fa rima con integrazione. Le 2 ragazze hanno ascoltato il richiamo del manto erboso e realizzato il loro sogno.
Jihane, appena un mese fa, è stata promossa arbitro nella sezione dell’Aia Figc di Pontedera mentre Akarmut è stata la prima donna immigrata ad indossare la divisa e il fischietto all’ombra delle gradinate dello stadio Mannucci.
«E’ iniziato tutto da una semplice lettera», ricorda Jihane, futura ragioniera.
«Era un invito a partecipare al corso per arbitri. Ho deciso di presentarmi, aderire e concretizzare un hobby che ho sempre avuto».
Superato l’esame ed entrata di diritto nelle vesti di giudice imparziale di gara, può stringere finalmente tra le mani il completo formale.
«Adoro il calcio – continua – ma non ho mai giocato. Mi piace guardarlo, sono tifosa del Milan ed è per questo che ho scelto di fare l’arbitro».
Affrontando tutti i sacrifici che comporta e assumendosi tutte le responsabilità di rito.
«Per il momento, in attesa che mi assegnino le gare da arbitrare, mi alleno 3 volte alla settimana».
Corsa, resistenza, atletica.
«Per tenerci in forma e per imparare a gestire le situazioni di gioco, compresi i momenti di stress e le emozioni forti che ci troviamo a disbrogliare».
Jihane è serena, perfettamente inserita nella città d’azione in cui vive da 7 anni.
Al suo fianco una famiglia che la segue e le lascia i propri spazi per coltivare interessi ed inclinazioni. L’arbitro, gran burattinaio di ogni match, ponte tra due squadre, simbolo di imparzialità e bilanciere di giustizia, rispecchia la sua personalità.
«Sono una ragazza come tante», si definisce così Jihane.
Con umiltà ed equilibrio.
Ma non perde di vista i suoi obiettivi.
E se il potere non le darà alla testa, dovrà imparare a fare i conti con i fallacci e le proteste, forse qualche offesa di troppo.
«Lo so, non sarà facile – ammette mentre sorride – ma cercherò di dare il massimo e di fare del mio meglio».
In fondo è già abituata ai cori da stadio e alle ammonizioni.
Almeno quelle del fratello Soufiane, calciatore tra le fila della Bellaria, di cui non si perde una partita.
«E poi – aggiunge – durante gli allenamenti ascolto i racconti e le storie dei colleghi più anziani.
Ci arricchiscono di consigli preziosi».
Dello stesso parere e ormai abituata a destreggiarsi tra giocatori rivali e tifoserie rumorose Akarmut, veterana, con alle spalle già 5 gare arbitrate, di aneddoti ne ha da raccontare.
«Sono i genitori dei piccoli sportivi i più agguerriti.
La mia prima esperienza in campo col fischietto fu un disastro.
Se avessi potuto sarei andata via.
Vestire i panni dell’arbitro significa convivere per 90 minuti con la paura di sbagliare.
All’inizio è difficile mantenere il controllo poi piano piano ci fai l’abitudine».
Akarmut giocava da piccola sui tappeti verdi di Adana in Turchia.
Oggi invece dirige gli altri, adora Del Piero, frequenta l’Itcg Fermi, spera di aprire un’agenzia turistica e non nasconde di pensare ogni tanto alla carriera in maglia nera.
Poco importa però se Jihane e Akarmut arriveranno mai ad arbitrare in serie A.
La loro battaglia l’hanno vinta due volte.
Prima come donne e poi come immigrate, hanno inflitto una pesante sconfitta ai vari problemi quotidiani di integrazione.
Oltre i cartellini rossi o gialli.
Paola Silvi

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